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LASCIATE CHE I BAMBINI VENGANIO A ME… Ma non certo per stuprarli!


Ricordo quel passo del Vangelo di Marco, in cui si legge quella frase significativa, che tutti conoscono e che credo sia molto più celebre, delle espressioni contenute nei testi dei più famosi rapper moderni. “LASCIATE CHE I BAMBINI VENGANO A ME”, una frase che racchiude il rispetto e il senso di protezione di Gesù nei confronti dei bambini.

Ora io non riesco a non chiedermi, da credente in Dio, in Cristo, nella Vergine Maria, ma non più nella Chiesa e nelle sue perpetrate contraddizioni, quale sia la maligna e malefica patologia, che comunemente prende il nome di pedofilia, che spinge i presunti discepoli di Dio, ad abusare, giustificati dalle più subdole ed inaccettabili scuse, di bambini innocenti ed indifesi.

Non è certo corretto fare di tutta l’erba un fascio, lo so bene e Papa Francesco che è l'esempio più palese, è la testimonianza vivente della chiesa vera, ma in questi casi, il rischio che si corre, è quello di accomunare tutto il Clero, sotto una meschina campana di ipocrisia, che si stringe attorno a coloro, che sono più adepti del demonio, che discepoli di Cristo. Quel Cristo, che amava e proteggeva i bambini, che prediligeva i poveri e i disagiati ai benestanti; che attirava a sé la gente, indipendentemente dalle loro ricchezze. Che non si attorniava di lusso e sontuose magnificenze.

Un Cristo che non porgeva la mano per farsi baciare un anello, ma si chinava dinnanzi ai più deboli, ai fragili, di corpo e di spirito; che non portava sul capo una mitria ricamata e tempestata di pietre preziose e che non ornava il suo collo, con sfarzose croci d’oro zecchino.

La Croce di legno, quella era, ed è rimasta nei secoli, il suo simbolo; una Croce inzuppata e trasudante di significati, di messaggi di pace, di altruismo, di umiltà e di non violenza.

Una Croce simbolo di sacrificio e di amore incondizionato; quella stessa Croce, di cui credo la Chiesa, con buona parte dei suoi Ministri, debba recuperare il valore e il significato.

E’ vero, gli uomini di chiesa, sono uomini, ma proprio per questo motivo, a loro va riservato lo stesso trattamento degli uomini comuni, che commettono errori e reati. Troppo a lungo sono stati protetti e giustificati, dalle loro vesti e da quei principi, di cui hanno appreso solo la teoria, senza poi minimamente applicarli alla pratica.

Trovo vergognoso che si arrivi ad imputare ad una bambina, come peraltro era già stato fatto in altre occasioni, la colpa di aver sedotto ed irretito un prete, un uomo che come tutti gli altri uomini comuni, deve pagare per il reato commesso, per non aver protetto e preservato, la sacra innocenza dell’infanzia e per aver violato ed impresso in quella, e chissà in quante altre vite, la ferita inguaribile, dell’abuso sessuale.

Don Paolo Glaentzer è un pedofilo, e la chiesa, per rispetto verso tutti coloro che credono e si affidano a questa istituzione, deve pretendere per prima, che questo “SCHIFOSO “ paghi.

Non vorrei, che ora come in passato ed in altre situazioni, si debba ricordare la frase di Giolitti, che in questo contesto calza a pennello ovvero: “Per i nemici le leggi si applicano, per gli amici si interpretano.” Il prete pedofilo dovrà pagare; lo devono pretendere gli alti Prelati, gli uomini di chiesa e la società; non solo con esercizi spirituali, che potrà e dovrà eseguire da dietro le grate di una cella, ma con la pena che si applica in questi casi. Dovrà pagare, perché reo di una colpa inaccettabile, che ha commesso e che nessuno, se non Dio e Cristo, nella loro immensa bontà, sarebbero in grado di perdonare. (iCdL - Luisa Colombo)

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"L'arte non si imprigiona, perché i colori vanno oltre le sbarre e oltre il grigio, c'è l'arcobaleno."

Non è mai semplice fare i conti con se stessi, guardarsi allo specchio ed avere la certezza, che quello che vediamo, è ciò che realmente siamo.

Riuscire a rappresentare su una tela, su un foglio, una tavola di legno o un pezzo di creta grezza, ciò che vorremmo o non vorremmo essere, può essere alquanto difficile e non comprendiamo quanto lo sia, finché non ci mettiamo in gioco e non iniziamo, quello che non è solo un percorso creativo, ma un corposo lavoro di analisi e di introspezione. Sperimentare e sperimentarsi artisticamente, in un luogo particolare come il carcere, non è solo un modo per passare il tempo o mettere colore sul supporto, è riconoscere le proprie fragilità e i punti di forza, i lati talvolta sconosciuti, sia positivi che negativi e le emozioni che abitano in ognuno di noi, soprattutto lì dentro, dove l'immagine di durezza che riveste la maggior parte dei detenuti, non può essere scalfita, perché è il loro abito più pregiato, è una corazza, una sorta di protezione.

Dipingere, scolpire…creare, è riconoscere che anche loro, sono come tanti strati di colore messi uno sull'altro; strati che convivono all'interno di ogni essere e che costituiscono la personalità e l'essenza di ogni individuo.

Non è semplice fare quest'operazione da soli, soprattutto quando l’immagine di durezza che si sono costruiti, comincia a sgretolarsi, per lasciare riaffiorare il loro lato più umano, quello che non ha difese. In quei momenti, hanno bisogno di avere qualcuno accanto, qualcuno che sappia leggere le emozioni che li attraversano, qualcuno che sappia vedere attraverso le crepe, che si formano sugli strati di colore, che le esperienze della vita, hanno messo addosso ad ognuno di loro e che li aiuti a riportare in superficie i colori primari, con tutte le sfumature e le gradazioni, che ogni essere porta dentro di sé.

Questo è ciò che accade nel laboratorio di arteterapia, del secondo reparto, della II Casa di Reclusione di Milano/Bollate. Fare Arteterapia, con un gruppo così esclusivo di utenti, è come assistere e partecipare, passo dopo passo, ad una rinascita, un tentativo dopo l'altro, con fatica, da parte dei detenuti e da parte mia, di trovare la via più giusta per esprimersi, per comunicare, per accogliere, per accettare ed accettarsi.

Un lavoro gomito a gomito, dove insieme ci si sporca le mani, in modo positivo e propositivo e dove il tempo, diverso per ogni detenuto, diventa testimone dei risultati di questo percorso, in cui nemici come la fretta e il giudizio sono banditi.

È dura, perché nonostante i sorrisi e le risate, non ci si dimentica mai del luogo in cui ci si trova, complici quelle pesanti sbarre ad ogni finestra, che filtrano l'aria, la luce del sole, i suoni e i rumori e lo scorrere della vita di ogni essere, che fuori da quel luogo, prosegue incurante di quella parte di universo, solo apparentemente così lontano, dalla propria esistenza.

È dura e nonostante i momenti difficili che non mancano mai, l'arte aiuta, sostiene e le tinte entrano dentro ognuno di loro, anche in quelli che pare sembrino più duri ed indifferenti, anche in un mondo come quello del carcere, così cupo e lugubre e grazie ai colori, lo sforzo di provare, di non cedere alla paura di non farcela, al timore di non deludere il giudice più severo che ogni detenuto ha, ovvero se stesso, diventa più sopportabile e ad un certo punto di questo viaggio, si comincia insieme a raccogliere i frutti di questo faticoso lavoro, che si riflette, in modo positivo, nei rapporti tra detenuti e con gli operatori della struttura, che stimola e sviluppa capacità progettuali a livello pratico ed intellettivo, che permette di creare qualcosa di reale e concreto, di cui essere orgogliosi e che, consentendo di conoscere meglio ed in modo più approfondito se stessi, permette di approcciarsi agli altri, con una modalità fino a quel momento, a tanti sconosciuta, rendendo in molti casi più fluido, il percorso di recupero e reiserimento nella società.


Luisa Colombo

Artista-Arteterapeuta

Ideatrice e conduttrice del progetto

“OLTRELESBARRE-Arteterapia in Carcere”


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Ciao Dario...Arivederci Erano gli anni novanta, erano anni in cui per me e per tanti ragazzi e ragazze come me, la Croce Rossa era una famiglia, era un posto dove non si trascorreva soltanto del tempo, la CRI di Lecco, era quel luogo dove ci si ritrovava, dove si condividevano ideali e valori, dove sono nate amicizie indimenticabili e tanti amori, era un luogo dove si condivideva la sofferenza e la tragicità delle storie che incrociavano i nostri cammini e il piacere di stare insieme in modo sano e costruttivo.

Eravamo giovani, ma fortemente motivati; eravamo giovani e l’amore per quella divisa blu con la Croce Rossa, che spiccava sul fondo catarifrangente bianco, è qualcosa di prezioso che fa parte di noi, di chi ancora milita in Cri e di chi ormai non è più operativo, ma si sentirà sempre parte di quella famiglia.

E proprio come nella migliore delle famiglie, quando un lutto la colpisce, tutti i membri vengono stravolti dalla spietatezza, con cui la vita a volte, costringe a confrontarsi.

Oggi la Croce Rossa di Lecco è in lutto e con lei, tutti coloro che ne fanno parte e ne hanno fatto parte negli anni.

La notizia ci ha colpiti come una pugnalata al cuore… Dario è morto… Un incidente in moto… Dario se n’è andato…

Dario, quante persone hai soccorso sulle strade; di notte, di giorno, durante le feste, nei giorni feriali… Nonostante la tristezza e lo sconforto, è impossibile non pensare a tutti quei servizi fatti con te, sotto il sole cocente e la pioggia, in estate ed in inverno…quando ancora si montava in ambulanza con il camice bianco svolazzante e il distintivo cucito sulla tasca.

Oggi, in questa giornata tragica, certi ricordi tornano prepotentemente alla mente e si fanno largo nella memoria.

Eri davvero speciale, avevi sempre il sorriso sulle labbra, non ricordo di averti mai visto arrabbiato o di averti sentito trattare male qualcuno. Sempre disponibile, preparato…eravamo sicuri “quando c’era Dario” e chiunque sia uscito in emergenza su un’ambulanza, sa cosa significa avere una persona su cui contare, di cui ci si fidava.

Quante volte ci è capitato di soccorrere vittime di disastrosi incidenti, a volte siamo arrivati in tempo, altre volte, in religioso silenzio abbiamo ingoiato il boccone amaro di non avercela fatta, di essere stati sconfitti dall’uomo con la falce, giunto prima di noi.

Caro Dario, io oggi ti voglio ricordare proprio durante quei tanti turni, con le risate, con i silenzi e in quei momenti in cui non c’era nemmeno il tempo di parlare…si poteva solo agire e la speranza, era quella di farlo sempre al meglio, perché quello era ed è il significato di quella Croce Rossa, che ognuno di noi ha tatuato sul cuore; dare il meglio di noi agli altri, imparando ad accettare che spesso, il destino non aveva in serbo quello che noi avremmo voluto.

Oggi quel destino funesto, ha raggiunto anche te, mentre eri a cavallo della tua moto e ti ha strappato all’amore della tua Serenella e dei tuoi ragazzi.

Che tragedia…

Che strazio…

Faccio mie le parole del testo della famosa canzone di Guccini e commossa ti scrivo che: "Voglio però ricordarti com'eri, pensare che ancora vivi, voglio pensare che ancora ci ascolti e che come allora sorridi e che come allora sorridi... “ Io non credo che ora tu smetterai di fare quello che hai sempre fatto, “l’angelo soccorritore” e ora lo farai da lassù e proteggerai Serenella e i tuoi amati figli.

A noi, a chi ti ha conosciuto e ti ha apprezzato per la persona solare, gioviale e umile che eri, non resta che stringerci in silenziosa preghiera, a tutta la tua famiglia, che con grande dolore oggi ti piange.

Ciao Dario…Riposa in Pace e grazie per aver fatto parte delle nostre vite

iCdL - Luisa Colombo

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Ciao, sono qui per raccontarti ciò che vivo,

le esperienze delle anime che incrociano il mio cammino

e quelle che hanno segnato la mia esistenza.

Qui ti parlo della mia vita, dei miei pensieri, delle mie riflessioni.

Se ti va di leggermi, di commentare, di esprimere il tuo punto di vista, sei libero di farlo...

Credo che la condivisione,

sia una delle esperienze migliori della vita.

Grazie Luisa

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